La borghesia va in mensa e Bottura all’università: cibo per anime in pena!
di Fabrizio Simoncini
2017 quante suggestioni quanti rimandi: cento anni dalla rivoluzione d’ottobre e cinquecento tondi tondi dall’affissione delle Tesi di Lutero nella chiesa del Castello di Wittenberg dove ebbe inizio la Riforma (segnalo in merito il libro fondamentale e bellissimo del tedesco Heinz Schilling): avvenimenti che hanno ribaltato il mondo! Ebbene mi è venuto da sorridere, con quel retrogusto amaro tipico dell’incredulità, quando la nostra millenaria Università bolognese non trova di meglio che premiare con una laurea ad honorem il cuoco Massimo Bottura, o meglio chiamiamolo Chef che fa più ascolto. Mi verrebbe da scrivere è l’inesorabile segno dei tempi. Non che cucinare sia un’arte da trascurare tutt’altro! Il cibo come il lavoro (ce lo insegnava anche Karletto) sono elementi essenziali per l’esistenza umana, ma quando si premia un personaggio che fa pagare 300 euro a pasto per le sue creazioni culinarie siamo entrati nell’ambito della provocazione, chiamiamola pure borghese.
Eh sì, in effetti non si va a mangiare solo del cibo, per quanto immagino ben cucinato, ma si va ad appagare un’idea: l’idea dell’esclusività che si riduce magicamente al concetto del “c’è chi può e chi invece non può”, ma la questione è più sottile. In una società declinante come la nostra, dove le certezze di ordine materiale e finanziario per larga parte della popolazione franano di giorno in giorno, la ricerca di situazioni privilegiate permette alla psicologia di chi vi accede, da un lato di indossare l’habitus proprio dello status borghese che così ha la possibilità di tracciare i confini in cui palesarsi, dall’altro si serve del meccanismo tipico del feticismo della merce, che rimuove ogni logica del comprendere il perché lo si fa e il da che cosa è fatto. Per chi va da Bottura non conta il valore d’uso di ciò che si va ad acquistare, ciò che è determinate è l’andare di per se stesso: l’entrare dunque in quel confine ben disegnato dall’immaginario perbenista. Qualsiasi tipologia di menù offerto riceverebbe il gradimento, perché tale consenso è già scritto nel sapere che la tavola di Bottura è “riservata” e tale discrimine è il prezzo.
Non c’è rivolta nell’intimo del nostro popolo a tutto questo: c’è invece plauso, invidia, emulazione, desiderio di entrare nel circolo degli eletti alla nuova mensa degli Dei. Nessuno ormai si indigna per il fatto che gli italiani si stiano trasformando da più grandi maestri e creatori di arte in cuochi e in camerieri al servizio del denaro per il denaro: perfetti esperti nella coltivazione dell’effimero. Ci si accorge di ciò nel constatare che oramai le vere star nei sogni del gregge fintamente colto non siano più gli eroi di Omero, le pellicole di Truffaut o i capolavori su tela di Simone Martini, ma conduttori di improbabili Master Chef e Sommelier dai nasi alla Pinocchio, mentre i nostri musei e le scuole d’arte sono in via di disfacimento: preludio alla loro desertificazione. Molti sanno chi è Bottura, pochi ricordano chi sia Lutero e la sua Riforma. L’Università invece di contrastare questa curiosa destrutturazione culinaria a scapito del sapere, la incoraggia.
La verità è che l’alta borghesia italiana e la variegata categoria dei radical chic (in genere sinistrorsi di facciata e ricchi di famiglia) vuole desidera ricerca i Bottura di turno affinché questi possano offrire (soprattutto costruire, ma a loro insaputa) l’esclusività di un’appartenenza: per mostrare e appropriarsi continuamente dello status che presumono li connoti davanti a sé e agli altri. Dunque andare in luogo dove ti scodellano spettacolari tagliatelle al ragù, magari solo a 9 euro, deve apparire a costoro blasfemo. Se per caso il ricco si palesa nella bettola (a bè si bè ho visto un re… mi verrebbe da scrivere citando Dario Fo e Iannacci), lo fa solo per riaffermare il gusto della sua appartenenza: una sorta di passerella in cui specchiarsi di fronte al volgo e proprio per questo rinnegarlo. Appropriata allora è l’immagine che ho scelto del film perfetto di Jean-Luc Godard “Il disprezzo”, recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna. Il grande regista della Nouvelle Vague ha sempre quel tocco oggettuale e spaesante che sa mostrare: come l’indifferenza e l’apatia di una classe sociale non sappia che nutrirsi dei sogni effimeri che continuamente fagocita senza nemmeno saperne l’origine e soprattutto intenderne il senso.
Quando gli studenti bolognesi contestavano, nel 1977 a Bologna, l’Ateneo come massima espressione borghese della cultura avevano centrato in pieno l’obiettivo. Non smettere mai di lottare dunque, anche se soverchiati, per disinnescare questa misera deriva di trucidi soggetti al servizio dell’effimero e di una Università che non trova di meglio che sprofondare in un enorme truccato piatto di cibo per anime in vendita.