Pasolini e Cefis che non si incontrarono mai
di Giorgio Gattei
Finalmente ho letto Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz (uno pseudonimo). Pubblicato nel 1972, questo libro era stato fatto sparire dalla circolazione e perfino alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che pure ne dovrebbe avere il deposito per legge, non c’era l’esemplare (sembra che «gli uomini della Montedison si siano mossi efficacemente per toglierne dal mercato il maggior numero di copie possibile e scongiurare al suo Presidente l’eventualità di un’inchiesta giudiziaria»). Però una fotocopia ha potuto essere ritrovata tra le carte di Pier Paolo Pasolini depositate presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, così che il libro è stato ristampato nel 2010 dalla casa editrice “Effigie edizioni” con introduzione di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti (a cui si rimanda per tutte le informazioni relative). Ma ormai non siamo più davanti ad un caso di attualità politica, com’era nel 1972, bensì ad un fatto di storia, comunque utile per conoscere il passato di cui il nostro presente è figlio, o almeno figliastro.
Ora è leggenda metropolitana che il libro di Steimetz abbia fornito a Pasolini l’appiglio necessario per molte pagine del suo romanzo Petrolio in cui aveva intenzione di denunciare l’intreccio infame dei “boiardi di Stato” (soprattutto Eugenio Cefis: era stata appena pubblicata l’indagine giornalistica di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani sulla Razza padrona) con le “trame nere” degli anni 1969 e seguenti. Tuttavia l’omicidio di Pasolini nel 1975 (che ormai sappiamo essere stato opera di diversi e non di uno solo) ha impedito che il romanzo venisse terminato e pubblicato (lo sarà soltanto postumo nel 1992). Eppure a leggerlo adesso non pare proprio che Pasolini abbia potuto attribuire così decisiva importanza a Questo è Cefis nella costruzione narrativa di Petrolio perchè, al di là della ripresa di alcuni passaggi sulle “partecipazioni incrociate” dell’allora patron della Montedison (che nel romanzo è chiamato «Aldo Troya, vicepresidente dell’ENI, destinato a diventare uno dei personaggi chiave della nostra storia»), tutto ciò che di lui si dice di peggio, semplicemente nel libro di Steimetz non c’è!
In Steimetz c’è soltanto una meticolosa, quanto mai noiosa e ripetitiva, elencazione degli intrallazzi finanziari della «gang di Cefis» (p. 134), allo scopo evidente di richiamare l’attenzione di fisco e Magistratura sul disinvolto utilizzo del denaro pubblico che veniva svelato. Il personaggio è descritto così: «lui sa quello che vuole e lo ottiene a qualsiasi prezzo, specie quando spende i soldi dello Stato, facendo funzionare gli ingranaggi con l’olio sottratto agli ingranaggi stessi. No, non è un ladro. Amministra fondi dello Stato, li investe, li dispensa come crede, autonomo come glielo garantisce, giustamente, la carica ricevuta» (p. 122). Il rimprovero economico che gli si muove proviene da una precisa sponda liberistica, così che lo si accusa perché «certe imprese, che hanno per costituzione un margine di rischio da capogiro, devono essere tentate da compagnie e da capitali privati. Quando i soldi sono del contribuente, non li si gioca alla roulette» (p. 14). E se poi un azzardo geopolitico gli si addebita, è quello di trattare commercialmente il metano dell’URSS, con ciò violando la “solidarietà atlantica” del periodo: «ecco il (cervellotico) ragionamento che il Cremlino deve aver suggerito al (compagno) dottore-presidente: tu rompi le scatole alle Sette Sorelle; hai quindi le carte in regola per guadagnare la stima e la fiducia del popolo sovietico» (p. 16). In prospettiva gli viene imputata addirittura la tentazione di una «apertura ai comunisti» (p. 85), così che «fra non molto potranno meglio scaldare la pentola della Repubblica Conciliare con il potente metano sovietico» (p. 17). Insomma, ciò che più si teme di Cefis è quella prospettiva di “compromesso storico” che poi sarà ordita da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer, ma ciò è quanto di più lontano dalle intenzioni politiche che adesso si conoscono di Cefis. E ben altra è, del resto, la denuncia portata avanti da Pasolini in Petrolio!
Nel romanzo al «Troya» vengono imputate almeno due compromissioni delittuose, la prima in merito alla uccisione del partigiano Alfredo Di Dio (su cui però qui non serve dilungarsi) e la seconda a proposito della morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei («in questo preciso momento storico Troya sta per essere fatto presidente dell’ENI e ciò implica la soppressione del suo predecessore (Caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)». Ma ciò che soprattutto è più grave è che in Petrolio il Troya è fatto responsabile ultimo (ispiratore? gestore? mandante?) del doppio tempo di quella strategia della tensione (1969-1974) messa in atto dai servizi segreti, naturalmente “deviati”, allo scopo di «tamponare il ‘68», come scrive Pasolini. Nel testo del romanzo, scritto di fretta, c’è però un equivoco quando vi si legge che se dapprima il Troya «con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo (’68): bombe attribuite ai fascisti», quando poi «la stessa persona (Troya) sta per essere fatto presidente della Montedison, ha bisogno, con la cricca dei politici, di una verginità fascista (bombe attribuite ai fascisti)». La confusione è palese, dato che la bomba di Piazza Fontana, che intanto è del 1969, era stata imputata sul momento agli anarchici e che le stragi successive, in quanto «attribuite ai fascisti», ben difficilmente avrebbero potuto dar luogo ad una «verginità fascista». Ed infatti non era ciò che intendeva Pasolini, che ne ha dato l’esposizione corretta nell’intervista all’“Europeo” il 26 dicembre 1974, poi riportata negli Scritti corsari del 1975: «prendiamo le piste nere. Io ho un’idea, magari un po’ romanzesca ma che credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli uomini di potere, e potrei forse fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi tanto – comunque alcuni degli uomini che ci governano da trent’anni – hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell’eversione del ‘68 e del pericolo comunista immediato, le stesse identiche persone hanno gestito la strategia della tensione antifascista. Le stragi quindi sono state compiute sempre dalle stesse persone: prima hanno fatto la strage di Piazza Fontana accusando gli estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e di Bologna accusando i fascisti e cercando di rifarsi in fretta e furia quella verginità antifascista di cui avevano bisogno, dopo la campagna del referendum e dopo il referendum, per continuare a gestire il potere come se nulla fosse accaduto». Lo stesso ragionamento ritorna anche nel famoso pezzo giornalistico sul “Corriere della sera” del 14 novembre 1974 che ha preso il titolo esemplare de Il romanzo delle stragi nella ristampa negli Scritti corsari: «io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna, 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della CIA (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e l’ispirazione della CIA, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare i disastri del referendum». Eppure questi nomi come avrebbero mai potuto essere detti se «io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi»?
Nella finzione romanzesca di Petrolio però Pasolini almeno un nome intendeva farlo: quello del Troya, ossia di Eugenio Cefis. Ma perchè mai tanto accanimento nei suoi confronti? Che cosa gli poteva imputare fin dal 1975? Forse ciò che siamo poi venuti a sapere per iniziativa di magistrati intemerati, e cioè che Cefis sarebbe stato in qualche misura coinvolto in un “golpe bianco”, fortunatamente mancato, volto ad imporre in Italia una riforma istituzionale orientata ad un presidenzialismo autoritario che di fatto avrebbe dovuto precludere al PCI qualsiasi prospettiva di accesso al governo. Ma come ci si sarebbe arrivati? Partendo dalla costituzione di una associazione segretissima, che poi è stata tristemente nota, se da un appunto del Sismi, rintracciato anni dopo dal giudice Calia investigando sul “caso Mattei”, è uscita la notizia-choc che Cefis sarebbe stato a capo della loggia massonica (anch’essa, naturalmente, “deviata”) P2 che avrebbe «gestito sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura» (p. XXV). Infatti, ma per paura di che? Inaspettatamente nel 1977, a soli 56 anni, Cefis si dimette dalla Montedison per ritirarsi infine in quel di Lugano a coltivare l’ossessione di cancellare ogni traccia del proprio passato (e Pasolini aveva colto la sindrome maniacale del personaggio se nel romanzo lo caratterizza così: «egli doveva per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile fonte di informazione su di lui era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire»).
Che quindi Cefis, dal 1971 presidente di Montedison dopo essersi dimissionato dall’ENI, accarezzasse ambizioni politiche estreme? Forse « addirittura un colpo di Stato», come ha insinuato Piero Ottone nel Gioco dei potenti (Longanesi, 1985, p. 209)? «E’ dunque vero che Cefis, da solo o con altri, dopo essersi comperato la Montedison, voleva impadronirsi della Repubblica? Forse no, forse si tratta di supposizioni gratuite; ma certi suoi comportamenti sembravano fatti apposta per alimentarle» (pp. 210-210). Ma, se Cefis aveva ambizioni di Seconda Repubblica, quest’ultima l’auspicava soltanto oppure operava fattivamente per portarla a realtà? Già in Razza Padrona Scalfari e Turani avevamo insinuato che gli obiettivi di Cefis avrebbero potuto andare «dai più leciti ai più perigliosi e sovversivi», ma comunque gli ostacoli incontrati dovettero apparirgli così insuperabili che, per evitare un possibile contraccolpo giudiziario o politico, preferì «saltare oltre la siepe, si ritirò dalla pista, sparì…. e la sparizione fu probabilmente il suo capolavoro, perchè l’uomo più compromesso d’Italia abbandonava la scena col minimo rumore e senza subire fastidi o molestie» (pp. 282-283). E fu una sparizione così improvvisa da spiazzare persone influenti a lui vicine se è aneddoto che Cefis, incontrandosi poi con Enrico Cuccia, il grande banchiere di Mediobanca, venne da lui redarguito in questi termini: «questo da lei non me l’aspettavo. Credevo che lei l’avrebbe fatto il colpo di Stato!» (p. 290).
Orbene di tutti questi oscuri retroscena nulla c’è nel libro di Steimetz (che comunque è del 1972), a prova che di tutto questo lui nulla sapeva e nemmeno s’interessava. Ma Pasolini invece sì. E come aveva potuto arrivarci? Bisognerebbe supporre che per la costruzione romanzesca di Petrolio ben altre e più “calde” siano state le fonti documentarie da lui ricevute, forse anche «confidenze su cose gravi e pericolose, addirittura sapendo o venendo a sapere i nomi degli autori materiali di delitti politici e di strage» (G. D’Elia, Il Petrolio delle stragi, Effigie edizioni, 2006, p. 43). Ma con un risvolto tragico finale perchè, come capitò al giornalista Mauro di Mauro che si era avvicinato troppo alla verità sul “caso Mattei” e letteralmente scomparve nel 1970, può darsi che anche il romanziere Pasolini si sia troppo avvicinato «a qualcosa di analogo, probabilmente e forse di ancora più grande» (p. 48): addirittura il nominativo del deus ex machina di tutta la “stagione stragista” nazionale che in Petrolio sarebbe stato inchiodato alla propria responsabilità criminale col nome infamante di Troya,. Così, se col suo omicidio s’intendeva «chiudere la bocca al polemista ‘corsaro’ e al suo romanzo-verità» (p. 44), c’erano però anche quelle pagine scottanti, se già scritte, che non avrebbero dovuto sopravvivere. Da qui la congettura (perchè al proposito le testimonianze sono contraddittorie) di un furto in casa Pasolini dopo la sua morte, allo scopo di sottrarre una parte del romanzo, forse quell’intero capitolo di cui resta soltanto l’intestazione “Lampi sull’ENI”, ma che forse avrebbe potuto intitolarsi “Lampi su Cefis”. Del resto, ne ha concluso Gianni D’Elia, «le parti di Petrolio che non si trovano più davano forse molto fastidio al Nuovo Potere, che si stava consolidando. Forse, avrebbero fatto lo stesso grosso botto di Mani pulite, contro la Tangentopoli stragista di quella stagione, invece sepolta nella rimozione e nella menzogna della ridicola nazione che siamo diventati, pasolinianamente, “a mutazione criminale avvenuta”» (p. 30).