L’Islanda al voto dopo lo scandalo dei Panama Papers
di Lorenzo Battisti
Molti hanno conosciuto l’Islanda per la prima volta durante i passati campionati di calcio, grazie alle inattese vittorie della sua nazionale. Questo piccolo paese del Nord Europa gioca un ruolo importante dentro la Nato e ha attirato le attenzioni di molti a sinistra per il modo originale di affrontare le conseguenze della crisi capitalistica.
La risposta islandese alla crisi
Quando si parla dei paesi nordici viene spesso diffusa una visione stereotipata, tesa ad esaltare la differenza e la superiorità etica e morale di questi paesi nell’affrontare i problemi. L’obiettivo è di presentare una presunta società alternativa, che pur rimanendo capitalistica, è esente da “storture”. L’attenzione data alcuni anni fa al modo in cui l’Islanda ha affrontato la crisi rientra in questa narrazione filo capitalista. La realtà islandese è differente e il risultato di queste elezioni lo mostra chiaramente.
Andrebbe notato innanzitutto che se davvero si vuole attribuire all’Islanda una risposta alternativa alla crisi, va prima riconosciuto che questo paese nordico è stato colpito dalla crisi come tutti gli altri paesi. Anzi, a ben guardare lo scoppio della crisi è stato più fragoroso che altrove. La ragione è che, se il detonatore (non la causa! [1] ) della crisi è stata la finanza, proprio l’Islanda era uno dei paesi che aveva visto una crescita mostruosa del settore finanziario.
Il processo di crescita finance-led (guidata dalla finanza) comincia all’inizio degli anni ’90, come risposta alla crisi della pesca, settore su cui si basa l’economia del paese, che dura da oltre dieci anni. L’Islanda decide di seguire “l’esempio irlandese”, procedendo a liberalizzazioni e privatizzazioni, particolarmente importanti nel settore finanziario del paese. In particolare viene liberalizzato il movimento dei capitali, con l’obiettivo di attirare investimenti nel paese e produrre una crescita alternativa a quella legata alla pesca. Il risultato è però diverso. I capitali arrivano, soprattutto dai paesi dell’Unione Europea, ma non certo per fare investimenti. Quello che interessa è fare guadagni finanziari importanti senza alcuno sforzo: attraverso il carry trade (prendere a prestito a tassi bassi in Europa e investire in titoli a basso rischio ma con alti tassi in Islanda, senza sforzi e apparentemente senza rischi) il settore bancario cresce a ritmi vertiginosi, portando con sé la borsa e le concessioni di credito. Tra il 1997 e il 2007 il peso del settore bancario sul Pil triplica, raggiungendo il 10% e i suoi attivi rappresentano il 1000% del Pil.
Il gioco si rompe con l’esplosione della crisi e con le restrizioni al credito che sono seguite. Le banche islandesi sono tra le prime ad essere colpite e già nel 2008 sono di fatto fallite. Insieme ad esse sono colpite le famiglie islandesi (che rischiavano di perdere i propri risparmi) e gli investitori internazionali che rischiavano di perdere i propri capitali depositati in Islanda (o investiti in obbligazioni islandesi) attraverso il carry trade. Se proprio si vuole trovare una differenza islandese, va riconosciuto che la reazione alla crisi è diversa dalla altre: spinto da importantissimi e durature mobilitazioni di piazza e confermato da ben due referendum, il governo islandese decide di garantire solo i risparmi dei cittadini islandesi, abbandonando al loro destino quelli degli investitori internazionali. Come altrove le banche vengono nazionalizzate e ricapitalizzate (impiegando capitali pari al 30% del Pil!), vengono divise tra la parte sana e quella “cattiva” (in cui vengono rinchiusi i crediti inesigibili) e questi non vengono garantiti dallo stato (come invece avviene altrove).
In sostanza, al contrario di quello che comunemente si crede, anche in Islanda c’è stata una socializzazione delle perdite, con il debito privato preso in carico dallo stato islandese, solo che questo è stato proporzionalmente più contenuto poiché si è scelto di tutelare solo la parte “islandese”. Gli effetti però sono stati gli stessi che altrove. L’Islanda è stata costretta a chiedere a prestito oltre 3 Miliardi di Euro agli altri paesi scandinavi per ricapitalizzare le banche, con conseguente esplosione del debito (passato dal 28% del Pil al 96%) ed parallele misure di austerità: tagli al bilancio pubblico e in particolare ai servizi sociali, unite a una forte svalutazione della corona islandese e ad un’esplosione dell’inflazione al 17% (ha permesso di tenere sotto controllo il debito e di contenere i salari).
Ma a 10 anni dall’inizio della crisi l’Islanda è in una situazione migliore? L’aver garantito solo una parte del debito, ha ridotto il fardello e ha permesso una ripresa più rapida: nel 2015 il Pil è cresciuto del 4% e la disoccupazione è intorno al 3%. Ma i consumi (cioè la spesa delle famiglie) sono ancora inferiori a quelli del 2007, così come gli investimenti, che raggiungono solo i due terzi di quelli pre-crisi. Questo perché la ripresa ha due fonti: la pesca (spinta dalla diminuzione relativa dei salari e dall’aumento del prezzo del pesce sui mercati internazionali) e il turismo (attirato dalla svalutazione della corona). In sostanza, come altrove, la soluzione islandese è stata la deflazione salariale, forse di entità inferiore per via di una presa in carico parziale del debito privato.
Un piccolo paese al cuore della Nato
Un altro mito da sfatare è quello dell’Islanda come paese nordico pacifico. Un mito che si scontra con una realtà ben diversa.
Vero è che l’Islanda non ha un esercito (d’altra parte da chi dovrebbe difendesi?). Ma è pur vero che questo non le ha impedito di essere uno dei membri fondatori della Nato, schierandosi così apertamente contro i paesi socialisti. Questa adesione provocò manifestazioni di protesta partecipate da migliaia di persone e represse con la forza dalla polizia e dai militanti del Partito dell’Indipendenza. Sebbene questa adesione non sia mai stata messa in discussione, nemmeno dopo la fine della guerra fredda, proteste contro la Nato hanno continuato ad essere presenti e partecipate. Tanto che,nel 2009, quando i generali Nato si sono incontrati per ricordare l’adesione del paese alla Nato, hanno dovuto farlo segretamente e sono stati accolti da una pioggia di palle di neve. A causa di questo diffuso rifiuto della Nato, spesso anche i partiti di governo sono stati costretti a promettere (senza mai realizzarlo) di ritirare l’adesione alla Nato, e i membri islandesi nell’alleanza si sono mantenuti silenziosi alla maggior parte delle riunioni.
Vista l’assenza di un esercito, l’importanza dell’Islanda per la Nato risiede in due settori. Da una parte come base di esercitazione per gli aerei e i sottomarini dell’alleanza. Dall’altra come nodo per le comunicazioni [2]. In seguito all’adesione alla Nato una base americana è stata costruita nell’aeroporto di Keflavik e la difesa del paese è stata assicurata prima dagli Usa, poi a turno dai paesi dell’alleanza. Inoltre sono stati costruiti quattro radar per monitorare i movimenti degli aerei sovietici (e oggi russi) e per monitorare le comunicazioni.
Purtroppo questa scelta militarista non è terminata con la fine del blocco sovietico. La base americana è stata chiusa nel 2006, ma per essere poi riaperta quest’anno, con l’accordo del governo islandese. L’obiettivo dichiarato è quello di dare la caccia ai sottomarini russi che navigano nell’area. Non manca, anche da parte islandese, l’avvallo alle provocazioni anti russe, come il proprio consenso all’entrata del Montenegro [3] nell’alleanza. O ancora lo svolgimento di esercitazioni Nato anti terrorismo sul suolo islandese [4].
Proprio quest’anno, i paesi nordici hanno giurato fedeltà alla Nato, promettendo “di collaborare strettamente con gli Stati Uniti sulla base di profondi valori comuni”. In cambio Obama ha affermato “che il mondo sarebbe più sicuro se ci fossero più amici come i nostri amici nordici”. Nella dichiarazione finale comune, i rappresentati di Finlandia, Svezia (questi primi, non sono membri Nato), Norvegia, Danimarca, Islanda affermano
“Gli Stati Uniti e i paesi nordici sono preoccupati della presenza militare crescente della Russia nella regione del Mare Baltico, del suo atteggiamento nucleare, delle sue esercitazioni non dichiarate, e delle azioni provocatrici fatte dagli aerei e dalle navi russe [5]”.
Denunciano inoltre
“L’occupazione illegale e il tentativo di annessione della Crimea, la sua aggressione al Donbass, e il suo tentativo di destabilizzare l’Ucraina” oltre al giuramento di mantenere le sanzioni [6] finché la Russia non renda la Crimea al controllo ucraino.
Le elezioni: dai Panama Papers al flop elettorale
Le elezioni del 29 Ottobre si sono tenute dopo che il governo precedente (formato dal Partito per l’Indipendenza e dal Partito Progressista) è stato costretto a dimettersi in seguito al coinvolgimento del presidente del consiglio nello scandalo dei Panama Papers: il suo nome infatti è saltato fuori tra quelli che detenevano ingenti somme in paradisi fiscali. In seguito alle proteste di piazza, durate giorni, sono state indette nuove elezioni [7]. Questo mostra quanto la finanza sia ancora influente nel paese e quanto il popolo islandese sia ancora preoccupato dopo gli effetti dello scoppio della bolla finanziaria.
Il primo dato significativo è che si è assistito a un’affluenza bassa per il paese: su 245 mila elettori hanno votato in 195 mila (79%), che diventano 190 mila voti se si tolgono le schede bianche e nulle (77%).
Il primo partito è risultato (contro tutti i sondaggi che davano vincenti i Pirati) il Partito per l’Indipendenza. Di orientamento anti-Ue, ma favorevole e garante da anni della permanenza del paese nella Nato, è passato dai 50400 voti di 3 anni fa (19 seggi) ai 54900 (21 seggi)di oggi. Il partner di governo invece, il Partito Progressista (il partito dei contadini, di orientamento centrista, liberale ed euroscettico), subisce un vero e proprio crollo: passa dai 46 mila voti (19 seggi) del 2013 ai 21’700 di oggi (8 seggi). Paga il coinvolgimento del suo segretario ed ex premier nello scandalo dei Panama Papers. Nel complesso la coalizione di governo passa dai 38 seggi su 63 ai 29 di oggi, trovandosi impossibilitata a replicare la composizione del governo precedente.
Il secondo partito del paese è il Movimento Verde di Sinistra. Questo partito è il risultato di varie confluenze ed alleanze tra le varie componenti di sinistra del paese. Le sue posizioni sono apertamente contro l’Unione Europea e chiede da sempre l’uscita del paese dalla Nato [8] [9]: proprio una sua deputata ha chiesto che si tenga su questo tema un referendum. Il Movimento passa dai 20’500 voti di tre anni fa (7 seggi) ai 30’000 di oggi (10 seggi).
Il terzo partito è il Partito Pirata, con un orientamento comune ad altre esperienze simili in Europa e nel mondo. L’orientamento politico sembra essere prevalentemente libertario e orientato alla democrazia diretta attraverso la rete. Sui grandi temi, quali l’Unione Europea e la Nato, non ha preso posizione (lasciando il tema aperto per un dibattito in rete), mentre sul piano economico chiedono la nazionalizzazione delle risorse naturali del paese [10]. Sebbene i sondaggi gli accreditassero un terzo dell’elettorato, il Partito Pirata si è fermato a 27’500 voti (10 seggi), in crescita rispetto ai 9’600 (3 seggi) del 2013.
Poi c’è il Partito Rigenerazione, di orientamento fortemente liberale, che è uscito dal Partito dell’Indipendenza rompendo sul tema europeo: questi chiedono di aderire all’Unione Europea senza alcun referendum e chiedono la fine dei sussidi agli agricoltori e liberalizzazioni economiche. Ottengono 20’000 voti e 7 seggi (non si erano presentati 3 anni fa). Di orientamento simile è il partito “Futuro splendente”, di orientamento centrista (quindi meno liberale in economia), ma favorevole all’adesione all’Ue ed anche all’adozione dell’Euro. Passa dai 15’000 voti (6 seggi) ai 13’000 (4 seggi). Infine c’è l’Alleanza Socialdemocratica, di orientamento vicino al New Labour di Blair, che passa dai 24’000 voti (9 seggi) ai 10’800 (3 seggi). Sebbene in Islanda la socialdemocrazia non abbia mai avuto i successi degli altri paesi nordici, questo continuo scivolamento mostra quanto sia profonda la crisi dei socialisti europei. Questi tre partiti rappresentano il blocco pro-Ue presente in parlamento, che perde globalmente un deputato ma guadagna 4’000 voti.
Non entra in Parlamento il Fronte Popolare Islandese, di orientamento anticapitalista, anti-Ue e anti Nato, che raccoglie 500 voti (0,3%) in crescita rispetto ai 118 (0,06%) di 3 anni fa.
L’estrema destra non supera lo 0,2%.
L’Islanda fuori dal mito
La situazione in Islanda è quindi ben diversa da quella che comunemente ci viene raccontata. La finanza ha regnato per anni in questo piccolo paese nordico così come ha fatto altrove, e lo scandalo dei Panama Papers mostra che anche qui, come altrove, questa influenza continua. Le presunte politiche alternative hanno alleviato il peso delle conseguenze della crisi, ma di certo non sono state così alternative come ci sono state raccontate: l’austerità e la deflazione salariale hanno pesato sui lavoratori islandesi come sugli altri lavoratori europei. E il ruolo dentro la Nato, nonostante la forte opposizione, continua e si rafforza.
Infine l’instabilità politica entrerà nel panorama politico di questo piccolo paese, come è stato per altri paesi nordici. Infatti il Partito dell’Indipendenza sarà costretto ad allargare la coalizione a partiti che non hanno orientamenti affini, oppure i partiti di opposizione potranno proporre un’alternativa, ma, anche in questo caso, al prezzo di una grande eterogeneità di posizioni.
NOTE
1. Il problema non è la finanza
2. Durante gli anni ’60 gli Stati Uniti avevano anche progettato di installare missili atomici sull’isola, all’insaputa dello stesso governo. Il governo islandese, una volta apprese queste intenzioni, ha minacciato l’uscita dalla Nato.
3. Iceland signs Montenegro NATO membership
4. NATO Takes Anti-Terrorism Training To Iceland
5. Nordic leaders pledge allegiance to NATO at Washington summit
6. Anche durante la guerra fredda l’Islanda ha avuto forti legami commerciali con la Russia. Anche per questo, l’Islanda risulta uno dei paesi più colpiti dalle sanzioni verso la Russia. Come abbiamo visto, l’economia islandese dipende dall’industria ittica, e la Russia è il principale mercato di esportazione.
The economic impact of the Russian counter-sanctions on trade between Iceland and Russian Federation
7. Questo blocco della politica islandese ha, tra l’altro, bloccato la possibilità per l’Islanda di chiedere la fine delle sanzioni verso la Russia, che causano grossi danni al settore della pesca, e che cominciavano ad essere considerate dal governo in carica. Inoltre, ormai da 5 anni, c’è una richiesta di svolgere un referendum sulla permanenza del paese nella Nato. Is Icelandic Government Split on Sanctions against Russia?
8. Icelandic Parliamentarian Says NATO Is a ‘Structure of the Past’
9. MP Wants Referendum on NATO Membership